Intervista a Valentina Menozzi co founder della startup innovativa Prometheus ideatrice di Ematik, il cerotto che dimezza i tempi di guarigione delle ferite croniche
Valentina Menozzi, Co founder e CTO della startup biotech innovativa Prometheus con sede nel distretto biomedicale di Mirandola e che opera nel campo della medicina rigenerativa, ci ha concesso una breve intervista raccontandoci il percorso che dalla passione per le biotecnologie e la stampa 3d la ha portata a fondare Prometheus, unitamente agli altri due soci Alice Michelangeli e Riccardo della Ragione. Da scienziata, ricercatrice ad esempio di donna imprenditrice in un settore quale quello dell’healthtech che si caratterizza per l’evoluzione delle cure tradizionali tra i paradigmi della sostenibilità, prevenzione ed innovazione di servizi
Netcoa, Associazione per la creazione e lo sviluppo di impresa, attenta al tema, sviluppato, tra l’altro, nel suo format di open innovation La Tavola delle Imprese, si pone quale acceleratore per le aziende ad impatto sociale con le sue azioni e progettualità che concretizza nei processi applicativi dello sviluppo locale, attualizzandoli e sostenendoli anche attraverso i programmi di Invitalia di cui è partner – S.I.S. – Sistema Invitalia Startup.
-Valentina, insieme ai suoi colleghi, ha creato Ematik, un patch personalizzato per la rigenerazione di ferite complesse, da applicarsi in ambito veterinario, ma non solo. Ci illustri il progetto, gli step affrontati e quelli che vi siete posti di affrontare.
Ematik è un patch riassorbibile che si ottiene dalla combinazione di un derivato del sangue del paziente con dei biomateriali, in parte realizzati tramite stampa 3D. Il patch riduce drasticamente i tempi di guarigione, con una rigenerazione senza cicatrici. In particolare il derivato ematico viene ottenuto tramite la nostra macchina completamente automatizzata. Il sistema è partito dal settore veterinario, nel quale il patch e altri 2 prodotti a base di derivati del sangue (per cartilagine e patologie oculari) sono già commercializzati. L’obiettivo che ci siamo posti è ora quello di certificare il prodotto per l’utilizzo sull’uomo, per il trattamento di ferite complesse come ulcere venose, da decubito o da piede diabetico.
-La vostra innovazione è stata definita rivoluzionaria nel settore dei medical device veterinari. Ma l’adozione di una tecnologia biomedica nei sistemi sanitari è il risultato di un lungo processo che vede coinvolti diversi stakeholder con diversi ruoli. Quali sono le difficoltà che riscontrate nell’approccio al sistema sanitario dove, appunto, è necessaria l’interazione tra ricercatori, medici, istituzioni, università?
Sicuramente il processo di certificazione è il primo ostacolo, solitamente lungo e costoso per dispositivi innovativi e più complessi come il nostro, seppur meno complesso di un farmaco. L’interazione tra diversi professionisti è poi sicuramente complessa sia per la difficoltà nel trovare un piano o protocollo condiviso da tutti che per la presenza anche di obiettivi diversi a seconda dell’interlocutore. Tuttavia, tali interazioni tra università, impresa e sanità sono fondamentali per poter certificare un prodotto che possa realmente apportare dei benefici al paziente e che possa essere facilmente utilizzato dal clinico in struttura. Si rischierebbe altrimenti di sviluppare dispositivi che trovano un ridotto impiego clinico una volta certificati.
-Quali sono le relazioni con i produttori di tecnologie al fine di immettere nel sistema sanitario l’ innovazione e la ricerca nel modo più tempestivo possibile ed, allo stesso tempo, nel rispetto della sicurezza e qualità, fermo restando gli interessi economici?
Per poter accelerare il processo di certificazione, garantendo sicurezza e qualità del prodotto, è sicuramente necessario l’aiuto di consulenti regolatori esperti nel settore dei dispositivi medici, che sta subendo importanti cambiamenti proprio per via della nuova regolamentazione. E’ poi fondamentale riuscire a creare un contatto diretto con chi gestisce il rilascio della marcatura. Altro aspetto fondamentale sarebbe creare dei collegamenti con chi ha già affrontato il processo di certificazione, così da ricevere feedback utili per accorciare i tempi e ridurre i costi.
-Ringraziandola per il suo prezioso contributo, a testimonianza che imprenditoria ed innovazione non sono prerogative maschili, un’ultima domanda: insieme ad Alice Michelangeli siete state selezionate per la finale dell’Eu Prize for Women Innovators 2020, competizione che premia le migliori 27 imprenditrici europee che hanno trasformato le loro idee innovative in progetti di imprese. Quali azioni reputa necessarie per sostenere ed incrementare le iniziative imprenditoriali femminili sul territorio? E che ruolo ha, per una azienda come la sua, l’attività di connessione ed interazione tra diversi soggetti che si esprime anche attraverso il nostro ecosistema L.I.C.I. che coinvolge università, enti di ricerca, istituzioni e stakeholders?
L’aumento delle iniziative imprenditoriali femminili, a mio avviso, è possibile soprattutto grazie ad un radicale cambiamento culturale. Prima di tutto bisognerebbe partire dalla cultura su nuove imprese innovative in Italia, stimolandone la crescita e trasmettendo il concetto che ruoli di management sono possibili anche per imprenditrici donne. Gli incentivi non sono sufficienti, occorre creare un network, stimolare discussione e condivisione delle proprie esperienze, che sono cruciali per far capire che l’imprenditoria femminile è possibile. Ci sono oggi diverse associazioni che promuovono questi concetti. Connessione e interazione sono fondamentali, le nuove idee nascono dal confronto.